Questo blog è rimasto inattivo per così tanto tempo che non mi ricordavo nemmeno della sua esistenza.
Lo riesumo, incerto in merito al suo futuro, per una questione puramente pratica: è più comodo articolare un’opinione attraverso esso che liquidarla sommariamente con un post su Facebook.
La vicenda della vignetta di Charlie Hebdo in merito al terremoto che ha colpito il centro Italia meno di due settimane fa ha scatenato lo sdegno furibondo di una gran parte di quello che ai giornalisti piace tanto chiamare “il popolo della rete”, una definizione demenziale che vorrebbe suggerire un intento collettivo dei fruitori dell’Internet quasi come se fossero mossi dagli stessi intenti verso un fine comune.
La realtà è che l’Internet è composto dalle stesse persone che incontrate nella vita di tutti i giorni (incredibile, vero? Non siete gli unici dotati di un computer!): rappresenta tutte le classi sociali ed i livelli di istruzione, tutte le frange di età della popolazione (a seconda delle piattaforme: è un fenomeno recente la colonizzazione di Facebook da parte degli over 50 ed il conseguente abbandono della piattaforma stessa, concepita come “roba da vecchi”, da parte dei teenager) e non rappresenta in nessun modo un interesse collettivo dei fruitori dello stesso.
Beh, escludendo il porno online.
Lo sdegno online, si sa, è roba da poco: nel corso degli ultimi mesi vi siete espressi con categorica indignazione in merito ad una pletora di argomenti diversi: dal Fertility Day alle stragi ISIS, dai calciatori milionari che vi fanno perdere gli europei agli italiani-brutti-coglioni-da-internare-perché-non-avete-votato-al-referendum-sulle-trivelle-ora-tutti-i-pesci-muoiono-nel-petrolio-e-come-mi-faccio-i-selfie-a-Gallipoli?
In più, se siete dei coglioni razzisti, pure per tutta una serie di bufale inerenti ipotetici soldi percepiti dagli immigrati, sulla sacra triade Boldirni/Renzie/Napoitano e su ipotetici benefici portati all’Italia dall’epoca fascista.
Come non considerare, dunque, il buon Charlie Hebdo che passa davanti a noi come il famoso cadavere del nostro nemico trasportato dalle acque del fiume di un antico proverbio cinese?
Perché eravate Charlie un po’ per caso, un po’ per moda. Magari vi siete resi conto di cose fosse quel giornale dopo aver cambiato l’immagine del profilo su FB e <<cazzo, cosa faccio adesso? Se la ricambio faccio la figura di merda, oramai mi hanno già messo centoventi mi piace. Vabbé dai la tengo, che comunque gli islamici mi stanno sul culo. Je suis Charlie, immigrati di merda!>>
Però ora avete una scusa per indignarvi ancora! Cosa chiedere di più?
<<No Charlie, non va bene. Non è divertente, non è satira. Questo va oltre la libertà di espressione. Questa è pura cattiveria, Charlie, e non la tollero. Je ne suis pas Charlie>>
E giù carriole di mi piace di tutti i boccaloni che, insieme a voi, avevano cambiato l’immagine del profilo.
In tutto questo gran casino, l’aspetto divertente che si può cogliere nel meccanismo inutile dello sdegno da social è la totale incomprensione di ciò di cui si sta trattando. Ho letto decine di “per me non è satira” e “non mi fa ridere” sganciati come pietre tombali di un dibattito inesistente (tanto siete tutti d’accordo!), dando per scontato che il nesso satira-divertimento-risata sia universale e scontato.
Peccato che non sia né l’uno né l’altro.
Non può essere universale perché ciò che fa ridere me non fa ridere te, e viceversa. Mio nonno non si perde una puntata del programma di Crozza e ride dall’inizio alla fine della puntata, io ho provato a guardarlo un paio di volte e tuttora non so se dentro di me abbia vinto il disgusto o la noia; quando ho provato a far vedere uno spettacolo di Doug Stanhope ad un’amica ho dovuto chiudere dopo nemmeno dieci minuti: non solo non rideva dello show, ma mi fissava con lo sguardo con cui si squadra un depravato (davvero ridi di queste cose? Tu ha dei problemi!).
Non può essere scontato perché, e qui cascano gli asini, la satira NON DEVE far ridere.
Può far ridere a crepapelle, può far sorridere.
Può farti sentire un brividino di terrore lungo la schiena che ti fa stringere i denti e ti costringe a cercare conforto attorno a te pure in una stanza vuota, come buona parte dei monologhi di Bill Burr.
La satira è un esorcismo individuale che serve a superare situazioni a cui è difficile approcciarsi come individui (morte, violenza, sottomissione, inferiorità sociale, tristezza) o a riflettere su tematiche complesse, e lo fa semplificando e ridicolizzandole.
Puoi riderne o no, ma il fine ultimo non è la tua risata: perlomeno, non soltanto quella.
“Non è satira perché non mi fa ridere” è un argomento di una ingenuità così disarmante da diventare a sua volta ridicolo.
A me fa non piace il cavolo cappuccio, ma se Antonella Clerici lo cucina alla prova del cuoco non vado a romperle i coglioni sulla sua pagina Facebook sostenendo che “quella non è cucina perché non mi piace il cavolo”.
“Il Vernacoliere è molto più divertente ed intelligente di Charlie Hebdo”. Si, e le carote sono un alimento davvero salutare e molto più buono del cavolo. Il mio giudizio è universalmente accettabile, no?
Poi arrivano i geni che sostengono che “Charlie Hebdo è solo alla ricerca di visibilità”: in effetti sono proprio sconosciuti, soprattutto da quando un commando terroristico ha crivellato a colpi di kalashnikov mezza redazione l’anno scorso e la notizia è diventata simbolo mondiale della fragilità europea davanti al terrorismo.
“Sono solo degli sciacalli!” scritto da gente che poi ti riempie la bacheca di post di Salvini che dal giorno dopo il sisma converte in consensi le macerie vomitando patetica retorica razzista (fuori gli immigrati dagli alberghi, facciamo spazio ai terremotati!).
E, sempre a proposito di razzismi a la carte, la stessa vignetta diventa pretesto per dare libero sfogo ad atavici odi antifrancesi (“mangia lumache di merda!” “imparassero a lavarsi il culo, sti ricchioni senza bidet!” “dovete morire male mangiarane del cazzo!”) che non vedevano l’ora di farsi spazio sulle bacheche di questi geniacci, nel duplice sfondone di incolpare una popolazione intera per le azioni di un individuo e di riproporre cliché ancora più triti di quelli espressi dalla vignetta che non sono neppure insulti ma vengono concepiti come tali.
Davvero, non c’è molto da discutere se le premesse sono queste.
Non riesco a capire neppure quelli che si sforzano di spiegare le vignette per renderle più digeribili agli altri e si lanciano in improbabili parallelismi tra “la pasta e le persone che mangeranno sulla ricostruzione”: se anche fossero spiegazioni credibili, a cosa servono? La satira non va spiegata più di quanto non vadano spiegate la musica o la poesia: sono mezzi espressivi che possono o non possono toccare le tue corde, i tuoi sentimenti riguardo ad esse non sono trasferibili agli altri.
L’unica questione rilevante in questa vicenda, a mio avviso, è il “too close, too soon”.
È assolutamente normale che, in seguito ad eventi tragici di grandi dimensioni, le persone reagiscano attraverso l’ironia. La satira serve anche a questo, appunto: esorcizzare il dolore e le paure.
Il problema sono tempistiche e distanze: a nessuno verrebbe mai in mente di redarguire qualcuno perché si è azzardato a scherzare sul naufragio del Titanic, sulle crociate o sui sacrifici umani aztechi. Sono eventi di inaudita tragicità, ma così lontani da noi nel tempo e nello spazio che si può tranquillamente raccontare una barzelletta su di essi senza incorrere nelle ire di nessuno.
La stessa comicità, se applicata ad epoche più recenti (es. le battute su Hitler e sul nazismo), diventa “humor nero”.
Magari ridi, ma guardi chi hai attorno per accertarti di non fare brutta figura.
Il problema si presenta quando l’evento è vicino a noi, temporalmente e fisicamente. Se il dolore è vivo, è più facile che si ripresenti.
Ho un ricordo ben definito del pomeriggio settembrino in cui Al Quaeda colpì le torri gemelle a New York: al posto della “Melevisione”, il mio me undicenne fissava la colonna di fumo nero alzarsi dalla torre senza coscienza delle conseguenze.
Dopo i crolli, chiesi a mia madre “ma ora viene la guerra?”. Rispose con un rassicurante “no, non viene la guerra”. Crescendo ho poi capito che, in realtà, intendeva “a casa nostra non viene la guerra”: a casa degli altri è arrivata eccome, invece.
A pochi giorni dal crollo delle torri, durante il N.Y. Friars Club Roast dedicato a Hugh Hefner, il comico Gilbert Gottfried prende il microfono e si lascia scappare una battuta sul suo essere a disagio, al momento della partenza dell’aereo diretto a New York, per la presenza di uno scalo sull’Empire State Building.
È il delirio: la gente urla, piovono insulti, qualcuno grida “too soon!”.
Gottfried se la cava proponendo la sua versione di The Aristocrats e salva faccia e carriera.
Poco più di un mese dopo, George Carlin è sul palco del Beacon Theater di New York a registrare il suo nuovo special “Complaint & Grievances” (inizialmente intitolato “I kinda like it when a lot of people die” e ribattezzato in seguito agli attentati).
Dopo un breve preambolo su se stesso, si lancia in un monologo a tema 11 settembre in cui l’argomento viene presentato come “l’elefante nella stanza di cui nessuno dice niente, come se ad una bella festa ci fosse uno stronzo che galleggia nella ciotola del punch”.
Va avanti interi minuti.
La gente ride, nonostante le migliaia di morti.
La tensione, palpabile ad inizio spettacolo, si dissipa.
Applausi.
Lo spettacolo procede, in una delle sue performance migliori di sempre.
Diversi episodi, stesso luogo, stessa tematica: approccio lievemente differente, tempi diversi.
Da una parte sdegno ed indignazione, dall’altra lo scopo della satira: una platea intera che esorcizza tensioni e paure, e ride.
Se la satira non vi fa ridere, non seguitela.
Se per la vignetta di Charlie Hebdo non era adatto né il momento né il luogo, lasciate correre.
Ma, per favore, smettetela di scassare i maroni con queste indignazioni da vomitino facile: non saranno i “mi piace” che raccattate per accrescere la vostra autostima a portare rispetto a chi ha perso la vita.